Palestina: Catastrofe e Ritorno

Coloro che hanno vissuto giorni migliori ci lasciarono per scritto che in tempi di rivoluzione la densità della lotta di classi fa sì che i giorni contengano mesi e le settimane anni. Sfortunatamente questa legge fisica della lotta di classi ha un ruolo anche in epoche di controrivoluzione generale, quando il concentramento delle contraddizioni che reggono la società classista arriva ad un punto in cui, senza la concorrenza del proletariato rivoluzionario, la minor detonazione può attivare una reazione in catena che sbocchi in un apocalittico massacro imperialista, come quello della III Guerra Mondiale che oggi è in agguato. Viviamo su un vulcano… al cui interno c’è un insondabile polveriera di testate nucleari. Così, al vertiginoso ritmo del decennio in corso, accelerato dalla guerra imperialista nell’Ucraina, si è sommato il cambio di marcia che lo Stato terrorista dell’Israele ha segnato alla sua esistenza coloniale in Palestina. Dal 7 ottobre i sionisti hanno assassinato al meno 14.000 palestinesi (senza tener in conto i 7.000 che giacciono fra le macerie) e provocato il trasferimento di 1,7 milioni, più di ¾ della popolazione affollata nel ghetto della Striscia di Gaza, assediata militarmente dal 2005. L’invasione terrestre di questo ghetto da parte delle Forze di Difesa dell'Israele (FDI) è cominciata il 27 ottobre, dopo venti giorni di bombardamenti nei quali hanno gettato 18.000 tonnellate di esplosivi sulle teste degli arabi. Tre settimane dopo le FDI hanno staccato la città di Gaza dal resto della Striscia e, dopo prendersi il porto, completarono la circuizione operativa della capitale, iniziando, il 17 novembre, l’assalto generale sul centro dell’urbe. A fine di sconfiggere un organizzazione terrorista rinchiusa in 360 km2, lo Stato sionista ha mobilitato 360.000 riservisti ed emesso un ordine di emergenza per armare i suoi cittadini, fra i quali spiccano 120.000 pogromisti desiderosi di partecipare nella purga. Tel-Aviv, conseguente con le premesse costitutive dello Stato ebreo, intraprende ora una pulizia etnica di dimensioni industriali, allo stile della Nakba del 1948.

La barbarie della Catastrofe palestinese è un elemento che permette di comprendere la struttura dell’imperialismo contemporaneo. La sola continuità tra questa crisi e il suo potenziale di trasformazione in una gran guerra a scala regionale, di imprevedibili conseguenze, rende conto di quello. Dall’altra parte, dopo la fine del Ciclo d’Ottobre, la possibilità del Ritorno (la liberazione nazionale Palestinese, inseparabile dalla distruzione dello Stato sionista) passa indefettibilmente per la ricostituzione degli elementi universali della Linea Generale della Rivoluzione Proletaria Mondiale (RPM), comprendendo come si esprimono i suoi requisiti oggettivi nelle condizioni specifiche della lotta di classi in cui attua l'avanguardia proletaria in ogni paese. Sotto queste premesse ci avviciniamo alla guerra di resistenza nazionale che i palestinesi sostengono, lotta anti-imperialista che i comunisti di tutto il mondo devono supportare. Nel caso del proletariato dello Stato spagnolo, questo appoggio è inseparabile dalla denuncia del ruolo che compie la nostra classe dominante in questo massacro, d’appoggio militare attivo a Israele: non soltanto con l’invio di una nave da guerra (fregata Méndez Núñez) che cavalca con la VI flotta yankee, ma anche con il comando delle truppe imperialiste che, sotto il padiglione dell’ONU, formano parte dell’architettura di difesa del regime sionista nella così chiamata linea blu.

Il ghetto palestinese contro il Reich sionista

Il 7 ottobre lo Stato sionista ha ricevuto un colpo senza precedenti, quando una forza guerrigliera ha realizzato un’incursione massiva nel suo territorio, rovesciando la sua difesa di confine per vari punti e avanzando sopra le popolazioni che rimasero senza protezione dalle onnipotenti FDI. Questo colpo ha comportato un’umiliazione su tutta la linea per il terrorismo sionista, poiché gli assaltanti provenivano, addirittura, dal ghetto di Gaza. L’umiliazione è stata tattica, perché la battaglia ha dato la vittoria militare ai miliziani invece che alle troppe regolari sioniste, clamorosamente miglior equipaggiate. L’umiliazione è stata strategica, poiché i palestinesi hanno dimostrato il limite della controinsorgenza israeliana, la profondità delle carenze del dispositivo di sicurezza della potenza coloniale, che non è riuscita ad annullare la resistenza del popolo oppresso. E, last but not least, l’umiliazione è stata ideologico-culturale, poiché la mentalità razzista dell’oppressore è stata capovolta da “animali umani” capaci di far mordere la polvere al popolo scelto da Yahvé, l’Impero britannico e la NATO per occupare la terra compresa fra il Giordano e il Mediterraneo.

Il comando militare di Hamas, assieme con altre forze della resistenza nazionale, dispiegò il 7 ottobre un’autentica operazione d’armi combinate di tipo irregolare. L’ordine di battaglia dei palestinesi avrebbe schierato due livelli di combattimento, con i gruppi di élite facendo breccia attraverso le quali sarebbe avanzata la maggior parte del personale, principalmente fanteria leggera. La rottura e l'infiltrazione sarebbero state coperte da un attacco iniziale d’artiglieria (in pochi minuti furono lanciati migliaia di razzi e diversi tipi di droni) e sarebbero state anche schierate unità aerotrasportate basate su parapendi motorizzati. Per non parlare del tentativo anfibio lungo la linea costiera prossima alla Striscia. Gli analisti lavorano con diverse cifre rispetto alla forza totale mobilitata, che implicherebbe vari migliaia di palestinesi. Oltre l'oscillazione delle cifre, il concentramento, sequenza, complessità e successo dell’attacco suggeriscono che il comando guerrigliero di questa forza tattica combinata ha generato un livello operativo assimilabile a quello di reggimento.

Insistiamo nel carattere irregolare della milizia palestinese perché pianificare clandestinamente l’alluvione Al-Aqsa dentro il ghetto di Gaza e di fronte al muso del Amat, Il Mossad e una miriade di organismi di controinsorgenza, sarebbe stato impossibile senza compiere un requisito oggettivo della lotta di classi contro un attore statale: agguatarsi fra le masse. La schiacciante asimmetria fra le forze in lizza esige l’applicazione di questo principio della lotta di classi che media l’azione sostenuta di qualsiasi movimento insorgente contro uno Stato, sia un gruppo terrorista piccolo-borghese, sia un movimento nazionale guerrigliero o uno del proletariato rivoluzionario. E non ci deve stupire la coincidenza in questo punto. La ricostituzione del marxismo come teoria d’avanguardia esige sottolineare il carattere dello Stato come una relazione sociale oggettiva e come il concentrato politico dell’esperienza storica delle classi dirigenti susseguite lungo la storia, classi che hanno tramandato fra loro il bottino dello Stato una dopo l’altra. Questa esperienza accumulata comprende rivoluzione e controrivoluzione, caos e ordine, i mezzi che rendono possibile l’accesso al potere, quelli che permettono stabilizzare il proprio dominio e quelli che precipitano la sua perdita. Questa esperienza universale è oggettiva ed è specificamente codificata nello Stato borghese. Da questa prospettiva si capisce meglio, fuori d’ogni speculazione dualista e strutturalista, la caratterizzazione leniniana dello Stato come distaccamento di uomini armati, come corpo politico-organizzativo prodotto dalla società di classi alla volta che rappresenta un momento speciale di sé stessa, che è una manifestazione della lacerazione interna che soffre il modo di produzione capitalista (produzione sociale-appropriazione privata), e contemporaneamente la forma della sua (falsa) risoluzione. Lo Stato capitalista è il borghese collettivo situato al di sopra delle fazioni della classe dominante e gli interessi particolari del capitalista individuale. Questa contraddizione fra Stato e società può definirsi come contraddizione fra stato e masse, poiché la società borghese è la società di masse. Così, la dialettica masse-Stato nella sua dimensione storica è l’apertura materiale, oggettiva, universale... che fa dei vuoti di potere una possibilità politica reale e del agguato fra le masse una necessità pratica per qualsiasi forza sociale insorgente che pretenda confrontare militarmente uno Stato, sia per cacciarlo via da un territorio o per distruggerlo.

Hamas è riuscita ad adattarsi magistralmente a questo contesto generale che fornisce la società borghese nella sua forma palestinese. Nel 2005 le FDI si ritirarono dalla Striscia applicando il sogno della socialista Isaac Rabin, premio nobel della pace: “mi piacerebbe che Gaza affondasse sotto il mare”. Mentre questo indietreggio sionista era l'applicazione reazionaria della “soluzione dei due Stati”, Tel-Aviv disponeva della complicità di Fatah, che, proprio per questo, era spostata in Gaza dalla resistenza islamista. La politica di contenimento dai bordi da parte di Israele ha permesso Hamas di riempire il vuoto di potere per dirigere la resistenza anti-sionista e nascondersi fra la densità delle masse della Striscia. Veramente la borghesia palestinese islamista ha fatto virtù della sua necessità. Dalle forme della lotta imposte dallo Stato sionista ha dedotto i mezzi per applicare il su programma di classe. Il 7 ottobre è stato la dimostrazione di come quelle imposizioni hanno spinto Hamas a sovvertire il feticismo tecnologico proprio della borghesia, sublimato nelle condizioni coloniali del Reich sionista. La chiave della riuscita sovversione (anche se in un'operazione tattica) dell’apparato statale ebreo risiede nella capacità dimostrata dall'avanguardia della resistenza nazionale di sostenere su un'ampia base di masse la lotta armata contro codesto Stato.

Risulta anche istruttivo, poiché dissipa le fantasticherie insurrezionali della rivoluzione sociale, il grado di pianificazione esposto dal comando delle brigate Al-Qassam in ottobre: un movimento politico-militare con un bagaglio di decenni di combattimento alle sue spalle (Hamas), stabilito in modo egemonico su una base sociale di masse oppresse (Striscia di Gaza), che conta con la solidarietà organizzativa di altri movimenti insorgenti (Hezbollah, gli Huthi del Yemen) e con l’appoggio finanziario e logistico di rilevanti attori statali regionali (l’Iran, il Qatar), ha dedicato circa un anno alla pianificazione, disegno e creazione dei mezzi specifici per un’operazione tattica concentrata... in un solo giorno! E che aveva come obbiettivo forzare lo Stato sionista a negoziare l’intercambio di prigionieri! Bisogna essere altamente devoto dell’ignoranza spontaneista (sintomo di senilità opportunista) per trascurare queste lezioni della gran lotta di classi e affidare tutta la complessità del processo rivoluzionario proletario al nel frattempo cosa?, alle circostanze circondanti della politica, al trascorrere spontaneo del movimento delle masse.

Fino qua ci siamo fermati su un aspetto della lotta di classe nazionale palestinese così come si è condensata nel azione del 7 ottobre, per il suo carattere illustrativo affinché si comprendano i compiti che deve affrontare l'avanguardia del proletariato nella costruzione del movimento rivoluzionario. Ma questa forma determinata della lotta non determina, de definisce, ne permette di capire la lotta nella sua interezza, né quella che sostiene la resistenza palestinese contro lo Stato terrorista dell’Israele, né quella che sosterrebbe un partito proletario di nuovo tipo. L’alluvione Al-Aqsa diventò un autentico alluvione delle masse palestinesi sulle posizioni sioniste: non è che le masse superarono le aspettative dei loro dirigenti, è che, letteralmente, traboccarono inarrestabilmente gli obbiettivi della loro avanguardia. Nonostante l’impattante organicità che offriva l’immagine del 7 ottobre, l’incorporazione delle masse profonde all’alluvione sarebbe stato il risultato della rottura della diga coloniale burocratico-militare che le tenevano ferme nel ghetto, un imprevisto che finì per triturare le difese sioniste, spazzò via i coloni e alterò il livello di una missione limitata e programmata autonomamente per il comando militare di Hamas in Gaza, secondo le dichiarazioni dei responsabili politici del movimento in Qatar. Come abbiamo già detto, e secondo tutti gli osservatori, nella sua forma originale questa operazione avrebbe avuto come obbiettivo l’arresto di alcuni invasori ebrei per scambiarli per prigionieri palestinesi. Questo era lo stretto percorso politico di quell’imponente opera di pianificazione militare. Il successivo discorso di Nasrallah, capo di Hezbollah, confermava quest’idea dell’alluvione come un operazione tattica limitata, intesa come un istrumento di negoziazione dei dirigenti islamisti nella striscia con l’Israele. Il 7 ottobre non sarebbe stato la meditata adunata per una nuova Intifada o per un attacco generale dell’asse della resistenza anti-sionista. Questo chiaramente non esclude che ciò finisca per accadere, poiché le spade sono in alto.

Nessuno dimentica che l’operazione di Hamas si svolge nel contesto degli Accordi d’Abraham. Il consolidamento di questa terribile alleanza legittimerebbe l’assemblaggio regionale dell’Israele e l’Arabia Saudita, un contrattempo strategico per i palestinesi, ma anche per Teheran, Damasco o Doha. In ogni caso, la dimensione internazionale e geopolitica è consustanziale al movimento nazionale palestinese, forma parte della sua impostazione storica e della sua morfologia di classe, precedente all’egemonia politica dell'islamismo nella zona. È necessario ricordare che, dopo la II Guerra Mondiale, e nel contesto delle lotte anti-coloniali in Medio Oriente, la questione palestinese era un fascicolo comune in tutto il mondo arabo. L’Organizzazione per la Liberazione di Palestina (OLP) fu in origine un prodotto importato, creato ad hoc dagli Stati arabi. I quadri dirigenti del movimento palestinese sono stati formati nel nazionalismo arabo di stampo socialista, fra le stesse idee che circolarono poco dopo nella Siria baazista e nel Egitto di Nasser, istigatori della gran repubblica araba. Mentre i partiti revisionisti avevano accettato la Realpolitik sovietica del dopoguerra (riconoscimento dell’Israele), la sinistra nazionalista rimase scioccata dall’ascendente movimento rivoluzionario anti-imperialista (Vietnam) e l’enormità della Gran Rivoluzione Culturale Proletaria. In questo contesto, la sinistra dell'avanguardia palestinese si staccò dalla gran casa del nazionalismo arabo per guardare verso il proletariato, ma senza abbandonare mai la logica nazionale frontista e, consecutivamente, senza rompere la dipendenza palestinese dagli Stati arabi circondanti. A questa visione contribuirebbe, certamente, il risultato della prima Nakba: centinaia di migliaia, e dopo milioni, di palestinesi vivevano nel Libano, Giordania e Siria. Strutture statali le cui frontiere, così recenti come capricciose, rispondevano al ritiro delle potenze coloniali e non ad una autodeterminazione nazionale araba che sembrava di proseguire in corso, mascherata sotto la causa comune delle guerre degli Stati arabi contro lo Stato d’Israele, malgrado la gran sconfitta nella guerra dei sei giorni. Allora la principale base dell’avanguardia palestinese, nazionalista o di sinistra, si trovava ancora fuori dai territori occupati dai sionisti dal 1967, nei campi di rifugiati all’est del Giordano e nel Libano, dove i palestinesi hanno vissuto per vari anni con ampie libertà, che sarebbero state ridotte con il tempo, per lottare contro il sionismo.

Da sé stessa questa morfologia originale sovrastatale del movimento nazionale palestinese non rappresenterebbe un limite, al contrario. Tuttavia, le sue premesse ideologiche di partenza (nazionalismo arabo), sommate alle condizioni del contesto politico regionale (l’esistenza degli Stati arabi uniti dall’anti-sionismo, così come hanno dimostrato nel campo di battaglia), hanno fatto che l’avanguardia dimenticasse per decenni di stabilire la principale base d’appoggio della rivoluzione palestinese… in Palestina. Il più persuasivo esempio di questa linea politica è il sequestro di aerei per far pressione nell’opinione pubblica mondiale e araba da parte di militanti del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina (scissione principale di sinistra del nazionalismo arabo-palestinese): propaganda dei fatti, terrorismo piccolo-borghese come istrumento di eccitazione del movimento di masse… fuori dal territorio nazionale. Questo non sottrae valore alla lotta anti-imperialista dei fedayin palestinesi nel Libano, Gaza, Cisgiordania o la Gerusalemme libera durante quello stesso periodo. Neanche elimina i tentativi, in chiave marxista, di situare il centro di gravità della liberazione nazionale fra le masse sfruttate del paese, anche se tali tentativi, come abbiamo già segnato, sono stati realizzati in termini frontisti (simili a quelli che difendeva la maggioranza del Movimento Comunista Internazionale e che finirono con la loro dissoluzione nel movimento spontaneo delle masse), rispettando l’egemonia della borghesia palestinese e la sua istituzionalità internazionale (OLP) e, correlativamente, affidandosi negli stati arabi alleati (cui borghesie dominanti erano già state pienamente incorporate al sistema imperialista mondiale, al di sopra della loro retorica terzomondista). Il risultato di quei tentativi illustra i limiti che il paradigma insurrezionale-spontaneista ha trovato in così tante trincee nelle quali i rivoluzionari combatterono durante il Ciclo d’Ottobre.

Quando le masse palestinesi si misero al centro della scacchiera (Prima Intifada, 1987), il mondo intorno a loro aveva fatto un giro di 180 gradi: il panarabismo, con le sue sfumature, era storia; la rivoluzione islamica iraniana sorgeva come l’esempio a seguire per liberarsi dal giogo occidentale; e il social-imperialismo sovietico finiva per cadere. Sul terreno, la dimostrata incapacità della sinistra anti-imperialista e del nazionalismo secolare culminava con la bancarotta politica di Fatah, che dagli accordi di Madrid-Oslo diventava Kapo del sionismo. In questo contesto storico irrompe Hamas, nodo palestinese dei Fratelli Musulmani, un movimento islamista che tradizionalmente aveva espresso gli impulsi della borghesia regionale esclusa dal dominio del potere statale (casi dell’Egitto, la Siria, la Giordania o il Libano). Al calore della Prima Intifada, Hamas irrompe formulando programmaticamente gli interessi della piccola borghesia ei suoi strati intermedi, settori della borghesia palestinese esclusi dalle negoziazioni con la comunità internazionale e che sarebbero meno disposti ad accettare il destino (esilio e/o sterminio) assegnato da Sion. Hamas ha imparato potenti lezioni della storia della lotta nazionale che, assieme alla pressione genocida del sionismo e i suoi alleati NATO, hanno costretto quella fazione della borghesia a confondersi con i settori popolari più sfruttati, costringendola ad appoggiarsi sulle masse oppresse per realizzare il suo programma (sia distruggere l’Israele, come predicavano nel passato; o far pressione contro l’Israele, come praticano da un tempo). Però questo programma dipende ancora da fattori esterni, risultato della precaria e contraddittoria posizione che occupa la fazione della borghesia palestinese a livello nazionale e internazionale. Il ruolo che prima giocava per i dirigenti nazionali palestinesi la casa araba lo gioca adesso la casa Islam. Il suo concorso per la causa palestinese, mentre sia guidata dalla borghesia, è indispensabile. Per quello la causa dell’emancipazione nazionale palestinese non può essere indipendente mentre questa sia guidata da qualsiasi strato della borghesia, poiché è una classe dipendente dallo stesso sistema imperialista di relazioni internazionali nel quale i suoi principali soci sono stati integrati e la cui riproduzione non questionano. Senz’andare oltre, nel 2012 Hamas celebrava le dimostrazioni contro Assad allo stesso tempo che la Lega Araba proponeva un intervento militare in Siria per imporre la pace e aprire corridoi umanitari, così come fecero la Francia e gli Stati Uniti per spezzare la Libia. Difendendo l’ingerenza straniera, Hamas rinuncia alle credenziali anti-imperialiste davanti ad altri popoli e si scredita come movimento capace di applicare l’autodeterminazione nazionale. Che ci siano comunisti resistenti e solidari con Assad e con Hamas che dimenticano questi dettagli è una mostra in più dell'empirismo stretto e di un’ampia dimenticanza, gravi sintomi di senilità opportunista.

Ma bisogna sottolineare che Hamas e il ruolo egemonico della sua concezione reazionaria del mondo fra i palestinesi (particolarmente in Gaza) non sono l’origine, ma il corollario di tutta un’epoca storica, sono la conseguenza dei peccati opportunisti del movimento operaio, la palla al piede dei fascicoli senza risolvere accumulati dall’avanguardia proletaria lungo il Primo Ciclo della RPM. La resistenza islamica palestinese si trova oggi all’avanguardia della lotta contro l’imperialismo sionista. Le sue contraddizioni di classe sono quelle della borghesia senza Stato che affronta una guerra coloniale di sterminio che dirige una guerra di resistenza nazionale avvolta da una grave dicotomia: appoggio illimitato sulle masse nazionali o la ricerca di un maggior numero possibile di sponsor tra gli Stati islamici. Davanti a questa tessitura, la tendenza che ha storicamente predominato nella borghesia palestinese è la conciliazione, la risorsa delle classi proprietarie verso le masse diseredate come mezzo per riposizionarsi, per resistere e vincere in negoziazioni sostenute dalla comunità internazionale. Ma, oltre le contraddizioni oggettive che assaltano i suoi dirigenti, la lotta contro l’oppressione nazionale del popolo palestinese riviste un aspetto di masse, democratico e anti-imperialista che rivela il carattere contemporaneo del vecchio adagio maoista, come il colonialismo ha comprovato nelle sue carni il 7 ottobre: l’imperialismo e una tigre di carta!

Passato e presente dell'oppressione coloniale

Abbiamo detto che l’azione del 7 ottobre è in relazione con la pressione anti-sionista contro gli Accordi d’Abraham e che tutto ciò che è alla base dell’oppressione palestinese è una mostra privilegiata della struttura politica del sistema capitalista mondiale. Come ogni patto fra cannibali, l’imminente firma dell’accordo fra l'Israele e l’Arabia Saudita, inteso come accumulazione di forze dell’imperialismo, gira attorno al rinforzo dell'oppressione nazionale dei popoli. Per la resistenza palestinese, data la sua dipendenza mediata e immediata dalle classi dominanti negli stati arabi e islamici, la normalizzazione dell’Israele fra la comunità internazionale islamica (anticipata da altri sbirri minori dell’imperialismo yankee, come è il caso degli Emirati arabi Uniti e il Marocco) significherebbe il suo sacrificio nell’altare di Yahvé. E qui sacrificio non sarebbe nessuna metafora, poiché il piano sionista per il popolo palestinese ammette soltanto due vie che finiscono nello stesso campo di sterminio: genocidio rapido o genocidio lento. Quello rapido sarebbe quello applicato in Gaza da oltre un mese e mezzo. Quello lento implicherebbe un giro di vite, stringendo il regime coloniale. Quello rapido ha bisogno di arabi tipo Fatah, disposti a compiere come sepoy sotto una sorta di “Stato di polizia senza Stato”, come correttamente è stata qualificata l’autorità collaborazionista di Mahmud Abbas nella Riviera Occidentale.

Pensare nel fetore di questo scenario vittorioso fa gongolare Isaac Herzog: “dobbiamo pensare quale sarà il meccanismo, ci sono troppe idee lanciate in aria”, ha detto il presidente israeliano, che ne ha chiaro che “non possiamo lasciare un vuoto”, che Gaza non può essere mai più una “base terrorista”. Mano a mano che i soldati sionisti attraversano le mura e si addentrano negli edifici e gallerie di Gaza, l’Alto Comando non può smettere di guardare verso nord. Si pensa in un nuovo gran intervento nel Libano. Nasrallah ha detto che il suo movimento non ha partecipato nell’azione orchestrata dalle brigate Al-Qassam, non che fossero a rimanere fermi. I colpi fra Hizbollah e l’Israele si sono intensificati queste settimane. Interessi geopolitici condivisi: senza Hamas nell’estremo sud dell’Israele, l'asse della resistenza perderebbe profondità strategica e le energie delle FDI rimarrebbero liberate per nuove imprese; un Hizbollah debole al sud del Libano aggraverebbe l’isolamento della resistenza palestinese in Gaza, Cisgiordania e ciò che rimane della Gerusalemme libera. Nella stessa tessitura rimarrebbe l’Iran, la potenza regionale che si oppone frontalmente alla triade yankee-sionista-saudita. La viabilità del pack completo della politica d’Abraham, per quanto riguarda la Palestina, si decide in questo momento per la via militare. I suoi difensori e detrattori non possono ignorare questo fatto precipitato che spinge la regione verso l’abisso di una gran guerra. Mentre si incastrino i pezzi, per gli Stati Uniti il come risulta incidentale. Ciò che importa è che le sue cinghie di trasmissione regionali attuino come tali e possano contribuire mediatamente nella lotta contro la Cina. È certo che una gran guerra regionale renderebbe molto più difficile l’ogni volta più complicato pivot to Asia, ma questo è ciò che c'è nel miglior dei mondi possibili.

Ci sono tanti fili che vincolano la Palestina con la politica mondiale, facendo sì che sia un condizionante del corso immediato delle contraddizioni inter-imperialiste, della pugna fra le potenze regionali e della lotta di liberazione dei popoli oppressi. Questo è il negativo politico immediato della storia della lotta di classi in quelle terre, segante dal sangue e fuoco da parte del colonialismo nella sua forma classica. Se alla fine del XIX secolo il perturbato padre spirituale del sionismo, l’ungherese Theodor Herzl, indicava che uno Stato ebreo in Palestina sarebbe “le mura di difesa d’Europa in Asia”;nel 1920 un tale Winston Churchill (aroma di tutti i genocidi perpetrati dall'imperialismo britannico lungo la prima metà del XX secolo) scriveva un panegirico (Sionismo versus Bolscevismo. La lotta per l’anima del popolo ebreo) nel quale chiedeva a tutti i buoni ebrei mostre pratiche di patriottismo e di ripudio del terrorismo internazionalista ebreo-bolscevico: li esortava di prendere la loro roba e andarsene via dall’Europa verso la terra promessa, verso la Palestina, dove avrebbero avuto il supporto dell’Impero secondo la Dichiarazione Balfour, del novembre 1917. Nessun comunista può dimenticare questo: l’originale costruzione dell’Israele come istrumento della borghesia mondiale per combattere l'internazionalismo proletario, seminare la discordia nazionalista fra i popoli e bloccare il processo della RPM.

Il sionismo nasce e si riproduce culturale e praticamente in simbiosi con il colonialismo. Pulizia etnica, articolazione comunitaria socialnazionalista e militarismo sono le basi costitutive dell’attuale regime israeliano. Nel nostro recente comunicato in solidarietà con la Palestina abbiamo già detto che l’Esercito, il Tzáhal, è il vero partito nazionale dell’Israele, la mediazione chiave per capire il sionismo contemporaneo come movimento e come Stato. Nel 1948 l’Israele è staccato dal suo imperiale chiostro materno e ha acquisito la struttura di classe di uno Stato imperialista in condizioni coloniali, cioè, in modo artificiale. Se quella struttura è definita in modo generico dall’alleanza fra il capitale finanziario e l’aristocrazia operaia, l’aspetto più astratto dell’equazione (il capitale finanziario) è stato fin dall’inizio per l’Israele un innesto internazionale sul suolo previamente coltivato da pionieri socialisti aschenaziti. I gruppi sionisti emigrati nel Levante fondarono piccole comunità settarie di tipo cooperativista, indipendenti rispetto alle masse contadine arabi oppresse (le quali furono depredate e cacciate via dalle loro terre) e punto d’appoggio militare per i britannici e francesi. Il movimento socialnazionalista e piccolo-borghese di tipo kibutz è stato utile come piattaforma di masse ai piani dell’imperialismo, somministrando un distaccamento speciale di sionisti armati con un'ideologia comunitaria e razzista, ed è stato sempre pronto a ricevere ogni aiuto militare e finanziario delle metropoli imperiali. Come prodotto del colonialismo, la configurazione storica dello Stato imperialista dell'Israele, la formazione della sua colonna vertebrale, espressa dall’alleanza politica fra una serie di potenze imperialiste e l’aristocrazia sionista del lavoro. Il Tzáhal, in origine, è la collusione del militarismo angloamericano con la Histadrut, movimento di masse intrecciato da relazioni borghesi di ogni tipo alzate attorno al comunitarismo associativo dei pionieri sionisti. Il susseguente sviluppo della società israeliana (che ha ricevuto milioni d’immigranti ebrei in successive ondate, in un vero rimpiazzo e sterminio della popolazione locale) è incomprensibile se non si ha in conto questa reazionaria complicità. L’ulteriore spostamento neoliberale del paese (simile a quello delle società imperialiste del blocco occidentale) è il risultato della lotta di classi lungo i decenni, delle contraddizioni interne di un regime che ha alla base, più che mai, l’apartheid contro i non ebrei (il 20% della popolazione). Ma la correlazione di forze attuale, il declino dell’aristocrazia operaia israeliana in beneficio di altre fazioni borghesi, non ha cambiato né la struttura della classe basica del paese né l'essenziale dei suoi legami internazionali.

l'Israele è un paese sovrano che possiede armi nucleari, cui intreccio con l’imperialismo e il colonialismo lo rende dipendente delle grandi potenze, principalmente gli Stati Uniti. Tuttavia, nulla è unilaterale. L’Israele dipende dal blocco imperialista guidato da Washington, sì. Però lo Stato sionista è un pezzo insostituibile per questo blocco in particolare e per l’imperialismo nel suo complesso. Nella geopolitica dell’imperialismo occidentale è evidente il ruolo che l’Israele compie come linea di difesa degli interessi yankee. Come un trapianto artificiale sull’Oriente Medio, lo Stato ebreo è una manifestazione avanzata dell’azione soggettiva ed esterna dell’imperialismo sui popoli, è la cristallizzazione razzista e criminale di come la borghesia costruisce un mondo a sua immagine e somiglianza, la cruda dimostrazione del trattamento della dialettica masse-Stato (Histadrut-Tzáhal) da parte dell’imperialismo mondiale. E per questo, l’Israele è un condensato internazionale del passo storico della borghesia dal progresso alla reazione (passo che precede da tanto la creazione dello Stato sionista). Poiché lo Stato d’Israele segna come la borghesia ha risolto un problema tipico, universale, dell’Illuminismo e la rivoluzione democratica: ha risolto la questione ebrea con colonialismo, razzismo e corporativismo fascista. Per questo l’Israele è anche un ingranaggio di primo ordine nell’articolazione del discorso imperialista dominante. “L’industria dell’Olocausto” come ideologia del vittimismo è una maligna copertura che impiegano i farisei per disinteressarsi dei loro crimini. Ma è, prima di tutto, una concezione del mondo pienamente utile al capitalismo monopolista e la sua tendenza al corporativismo (manifestazione, in termini imperialisti, di quella contraddizione basica del capitalismo produzione sociale-appropriazione individuale). In segno di gratitudine per lo Stato coloniale che gli imperialisti occidentali concessero (sterminando palestinesi), i sionisti hanno restituito il dono ai suoi progenitori, aprendo la spina del vittimismo come istrumento politico. Infatti il vittimismo veicola oggi il modo di pensare e la forma d’attuare di tutte le fazioni e correnti dominanti in tutto il pianeta. Tutto un epitaffio per la società borghese: qua giace una vittima di sé stessa… sebbene i comunisti lavoriamo perché nel sepolcro della barbarie si possa leggere: qua giacciono i nemici della rivoluzione.

Palestina e la ricostituzione dell'internazionalismo proletario

“Palestine: Core of the world” può leggersi in un vecchio cartello della resistenza. Quel motto è dialetticamente riconoscibile da una posizione materialista, se partiamo da un principio comunista: la costituzione del proletariato come partito indipendente spoglia ogni movimento di liberazione nazionale “della loro apparente sostantività, della loro indipendenza rispetto alla gran trasformazione sociale” (Marx) e li subordina alla rivoluzione proletaria. Per il caso, il palestinese non sarà libero mentre l’operaio continui ad essere uno schiavo. Porre fine alla Catastrofe non è possibile senza il Ritorno comunista, poiché l'oppressione nazionale in Palestina si concretizza come oppressione coloniale da parte di una metropoli imperialista piantata sul suo territorio, che la soffoca con ogni tipo di mezzi coercitivi extra-economici (espropriazione della terra, dell’alloggio e tutte le risorse nazionali; distruzione dell’industria e l’agricoltura; intervento e controllo commerciale, fiscale e finanziario; sistema di permessi degli operai palestinesi nei territori sionisti…) dentro di un piano di sterminio nazionale. Per questo, l’autodeterminazione nazionale e la distruzione dello Stato dell'Israele sono due aspetti direttamente intrecciati dalla liberazione palestinese.

Fin dalla sua conformazione storica, gli elementi costitutivi della morfologia politica del movimento nazionale palestinese sono condizionati dal loro carattere di classe, borghese. Le contraddizioni dei partiti e le fazioni che hanno occupato il ruolo d’avanguardia di questo movimento sono il registro soggettivo di quel posto che la borghesia palestinese occupa nel mondo: una classe proprietaria, capitalista, senza Stato, condannata allo sterminio coloniale e che sopravvive dipendente da una serie d’alleati internazionali che non possono spezzare l’oppressiva catena imperialista alla quale appartengono. Il percorso pratico del movimento nazionale palestinese dimostra che il carattere democratico della rivoluzione da fare può risolversi come rivoluzione di nuovo tipo diretta dal proletariato. La distruzione dello Stato borghese richiede l’applicazione della soluzione proletaria alla contraddizione fra lo Stato e le masse: la sussunzione di quello in queste, la sostituzione mediante la violenza della macchina statale borghese da parte del popolo in armi e l’articolazione come base d’appoggio di una repubblica unitaria, democratica e internazionale per tutta la Palestina. Questo programma, come forma di dittatura del proletariato nelle condizioni di questo paese oppresso, ristretto e schiacciato da una struttura politico-militare coloniale, può essere portato a termine soltanto mediante la trasformazione della guerra di resistenza nazionale in guerra popolare, facendo parte organica questo processo di un movimento rivoluzionario internazionalista che stabilisca nella retroguardia sionista una piattaforma di masse per la lotta militare contro questo Stato borghese. Non sarà allora importante se nell'altro lato della linea verde i proletari che compongano questo movimento internazionalista hanno un’origine ancestrale aschenazita, druso, musulmano, etiope, sefardita, cristiano, ecc. Però né la Guerra Popolare né l’internazionalismo proletario sono dedotti dal contesto oggettivo immediato analizzato fin qui: non si tratta di stendere conseguentemente la guerra di resistenza né di osservare un falso istinto politico solidario fra le sezioni di una classe internazionale cui riproduzione materiale ha luogo in compartimenti nazionali, come tragicamente rilascia la lotta di classi nel Levante. Si tratta di elevare il proletariato alla posizione di combattente d’avanguardia per la democrazia, della ricostituzione del Partito Comunista in Palestina come requisito oggettivo precedente alla trasformazione e rivoluzionarizzazione della società attraverso la guerra popolare.

Allora, i nostri compiti verso la rivoluzione palestinese passano per rinforzare l’internazionalismo proletario, per contribuire al decollo della sinistra rivoluzionaria in Palestina dal fiume fino al mare. La fine del Ciclo d’Ottobre ha lasciato un panorama mondiale desolante, nel quale il proletariato è incapace d’incidere in modo indipendente. L’intensità di questa devastazione aumenta fino limiti impronunciabili sulla mortificata Palestina, dove un popolo è spezzato via senza pietà da una potenza coloniale. Là, la resistenza anti-imperialista è egemonizzata dal componente nazionalista e islamista della borghesia, mentre l’avanguardia del proletariato è dominata dal riformismo militarista e frontista, correlazione comprensibile in un contesto di permanente cerchio e annientamento coloniale, di guerra di resistenza contro lo sterminio nazionale e nel contesto di arretramento generale della RPM. Nulla resta il riconoscimento di questa realtà oggettiva dell’avanguardia ai meriti degli operai e contadini palestinesi: la loro dignità nel combattimento anti-imperialista è un esempio per i comunisti rivoluzionari. Per quanto riguarda alla classe operaia nell’Israele, questa è infestata di sionismo, sebbene ci sia una sezione minoritaria che non collabora con lo sterminio né partecipa nella guerra coloniale. Questa sezione della classe operaia non difende una linea rivoluzionaria, ma innalza la bandiera bianca del socialpacifismo, esercitando un’opposizione (non proletaria, non marxista, non internazionalista) che non cessa d’avere certo decoro in uno Stato borghese militarizzato, cui partito nazionale è l’Esercito, dove i pogromi fascisti sono promossi dalle autorità e la censura, il presidio e l’assassinio sono il destino della dissidenza che questiona le basi razziste del regime e la sua criminale guerra… e dove la Storia stessa del movimento operaio è attraversata dall’influsso, sotto diverse sfumature, del sionismo. Un decoro mediato, perché mostra che persino nella ventre della bestia c’è una base sociale oggettiva per, partendo dalla lotta di due linee e la costruzione di un referente internazionalista, poter applicare una politica unitaria fra popoli nella lotta comune anti-sionista.

Ovviamente non è possibile comparare le condizioni dei due popoli né della loro avanguardia. I palestinesi sono gli oppressi e tutte le forme della loro lotta sono legittime e necessarie. La classe operaia dell’Israele è complice dell’oppressione, ha le mani sporche dal sangue dello schiavo e potrà soltanto pulirle con il sangue dello schiavista: avendo soltanto l’iniziativa e compiendo con i requisiti di questa missione internazionalista (la distruzione dello Stato sionista) potrà redimersi dei suoi peccati socialsciovinisti e potrà conquistare la fiducia dei suoi pari. Ma dobbiamo insistere nello scenario generale in cui si muove l’avanguardia dei due paesi per evidenziare che, partendo dai loro presupposti materiali particolari e immediati, dall’interno della spirale nazionalista incoraggiata dalle classi reazionarie e l'imperialismo può emanare soltanto la stessa coscienza borghese che impedisce l’emancipazione sociale e nazionale. In mezzo alla voragine nazionalista le voci estranee ei rifermenti esterni possono acquisire una potente qualità come nodo bolina per quelle sezioni dell’avanguardia internazionale sommerse nelle forme più terribili della barbarie.

Cosa dicono all’avanguardia palestinese e israeliana quelle voci estranee ed esterne? Per forza, la posizione tradizionale sulla questione palestinese fra i revisionisti dello Stato spagnolo perde slancio. Tuttavia, ci sono ancora nostalgici della soluzione dei due Stati. Nel PCTE possono essere soddisfatti, poiché il presidente Sánchez, cui primo gran atto di legislatura è stato andare in pellegrinaggio a Gerusalemme, lavora già “per riconoscere la Palestina come uno Stato”. Questa promessa presidenziale, in mezzo all’intensificazione genocida dei suoi alleati sionisti e di quanto corrisponde al suo stesso governo, non serve a nulla per la liberazione palestinese, ma fa onore alle parole che un giorno aveva pronunciato un ministro del GAL: “In Spagna si seppellisce molto bene”. Il PCTE, partito pratico dove ci siano, assisterà alla cerimonia con fiori di plastica. A suo lato, Il Frente Obrero incorpora una sfumatura: ricostruzione dei confini del 1967, rifiuto del terrorismo sionista e (la sfumatura) denuncia dell'islamismo palestinese, per evocare un tempo in cui la sinistra guidava la resistenza. Il socialfascismo non può nascondere la sua senilità opportunista, poiché i confini del 1967 non soltanto hanno puntellato lo Stato d’Israele, non soltanto comportano il riconoscimento del terrorismo sionista, ma anche l'insistenza in quel programma riformista da parte della sinistra araba è stato uno dei principali fattori che hanno favorito l’ascesa degli islamisti nella direzione della resistenza palestinese. Inoltre, questi islamisti, nel loro pragmatismo borghese (Hamas), hanno già accettato nel 2008 e ratificato nel 2017 la stessa soluzione che i crociati del Frente Obrero abbracciano assieme a Sánchez e Mohammed VI: la farsa coloniale-imperialista dei due Stati. Di quel coro revisionista spuntano altre voci che desiderano di prendere le distanze dalla soluzione dei due Stati. Una di quelle è quella del PCOE che, dopo il loro appunto pubblicato il 15 novembre, potrebbe appendere il cartello di liquidazione per chiusura e non accadrebbe assolutamente niente, secondo ciò che loro stessi hanno risposto alla domanda cosa può fare la classe operaia internazionale di fronte alla situazione nella Palestina? Nella loro vivacità hanno risposto che “soltanto l’organizzazione della classe operaia potrà porre fine al genocidio fascista e al sistema capitalista”. Secondo il PCOE i sindacati “ci mostrano la strada a seguire”. Non si riferivano al segretario generale dell’UGT (carica penale dal punto di vista proletario, senza bisogno di dire nient’altro) che scordò il foulard viola in casa per andare a piangere all’imbasciata dell’Israele per le vittime di Hamas. Il PCOE segnala gli stivatori di Barcellona, che nei primi giorni di novembre decisero di non lavorare con navi che potenzialmente potevano trasportare armi sottolineando, i propri operai portuari, che quello non significa “nessun posizionamento politico” e che basano la loro azione come uno stretto “rifiuto di qualsiasi forma di violenza”. La giusta decisione pratica degli stivatori barcellonesi sbaraglia la logica del militarismo imperialista. La voce del PCOE sbaraglia il PCOE: ogni tanto e meglio tacere e sembrare un liquidazionista alla retroguardia del movimento operaio che aprire il muso e confermarlo, poiché se gli operai ei loro sindacati apolitici e pacifisti sono coloro che mostrano la strada a seguire dai comunisti nell’appoggio alla Palestina, per quale motivo gli operai, i comunisti e i palestinesi, avrebbero bisogno del PCOE? Assolutamente per niente, per fortuna di tutti quanti che sono stati interpellati. E tuttavia, attraverso una domanda travisata e una risposta economicista il PCOE ha accarezzato un pezzo di verità, perché hanno sceneggiato il luogo che occupano distaccamenti revisionisti come il suo, rappresentanti di una classe senile, incapaci di capire aspetti elementari del marxismo-leninismo e della lotta di classi, carenti d’ogni prospettiva politica e cui vita organica si trova nel parassitare fra gli operai, i comunisti e i popoli oppressi.

La politica dei due Stati non è nessuna soluzione pratica della questione palestinese, a meno che si cerchi la via lenta del genocidio, così come certificano i trent’anni trascorsi da Madrid-Oslo. La voce pragmatica del falso comunismo comprende altre sfumature economiciste, ma tutte coincidono nel dettare i palestinesi che la rivoluzione è inverosimile, che è impossibile una politica internazionalista con il proletariato israeliano, il che significa, si voglia o meno, negare la distruzione rivoluzionaria dello Stato sionista e tenere il palestinese dipendente dalla sua borghesia, sottomesso alla catena imperialista. Questa è la proiezione solidaria del luogo che occupa l’aristocrazia operaia nella società: il sindacato come piattaforma d’ogni politica operaia, dipendenza dalla classe del capitale finanziario e ricerca di un luogo proprio sotto lo Stato borghese monopolista.

Il falso comunismo nega la possibilità di convivenza internazionalista e democratica fra i popoli. Hanno accettato che viviamo nel miglior dei mondi possibili e come buoni rinnegati si sforzano in riprodurlo in tutti i suoi elementi. Rispetto all’avanguardia nella Palestina e l’Israele, i revisionisti dello Stato spagnolo contribuiscono alla zizzania, a sostenere la sfiducia fra i popoli e potenziare il riformismo e il nazionalismo. I revisionisti vanno dietro l’imperialismo e la sua incallita politica per la Palestina. Non ci dimentichiamo: la borghesia britannica, conciata nell’arte del crimine imperiale nell’Irlanda, l’India, ecc., ha coltivato nel Levante la discordia fra vicini con l’obbiettivo dichiarato di lottare contro l’avanguardia internazionalista e bloccare la RPM. I revisionisti rimangono con Churchill e l’Impero. Noi con Stalin e la Komintern. Il georgiano ha detto, nella sua sintesi sulla linea generale del marxismo attorno alla questione nazionale, che in tempi di controrivoluzione, quanto più forte colpisca l’onda nazionalista, più forte deve alzarsi la voce dell’internazionalismo proletario. La Komintern ha dato un riconoscimento universale a quest’idea e l’ha messo in pratica nella sua articolazione come movimento mondiale di elevazione della classe al comunismo. Il Partito Comunista della Palestina è stato costituito nel 1923 sulla base dell’unità e indivisibilità della lotta di classi proletaria, con l’obbiettivo di promuovere la fusione di ebrei e arabi in un unico movimento rivoluzionario. La Komintern, nucleata dalla prassi rivoluzionaria del Partito Bolscevico e del proletariato sovietico, ha provveduto un orizzonte internazionalista all’avanguardia palestinese. Questa è la strada a seguire per i comunisti, l’unica realmente pratica e solidaria con gli interessi rivoluzionari delle classi oppresse.

Nel nostro posizionamento d’ottobre, e nel presente, abbiamo segnalato gli elementi della Linea Generale della RPM in relazione con la Palestina. Con ciò siamo molto di più concreti e precisi che tutti i pragmatici assieme, poiché poniamo la solidarietà internazionalista del proletariato nel campo dell’azione reale ed effettiva dell’avanguardia comunista, in questo periodo generale di impasse e riattivazione della RPM. Non siamo noi a costruire castelli metafisici sull’aria, né a rinchiudersi nelle dipendenze della torre d’avorio dell’attivismo riformista, né a rimandare i popoli oppressi dall’imperialismo al lupanare dell’ONU. Noi, i comunisti rivoluzionari, esercitiamo la solidarietà operaia con il movimento nazionale palestinese proiettando internazionalmente, dalle nostre condizioni specifiche, la dialettica universale che deve presiedere il Secondo ciclo della RPM, la dialettica avanguardia-Partito. Perché questa solidarietà deve far parte organica della lotta per l’indipendenza ideologica e politica del proletariato, un gradino oggettivo materiale per lo sviluppo e ricostituzione dell’internazionalismo proletario. L’autentica solidarietà comunista, sua qualità rivoluzionaria, passa principalmente per la lotta contro le correnti socialscioviniste e opportuniste che fanno marcire il MCI e per creare un movimento d’avanguardia che continui approfondendo il Bilancio del Ciclo d’Ottobre. Riconosciamo che, nelle terribili condizioni della lotta di classi nella Palestina, la nostra voce estranea ed esterna non può avere incidenza immediata né impatto diretto per la trasformazione rivoluzionaria della situazione. Ma questo è l’unico orizzonte, l’unica alternativa realista, che può provvedere un nodo bolina che orienti i rivoluzionari di quelle latitudini, necessariamente intrappolati nella turbina della resistenza anti-coloniale, nell’articolazione di un incipiente movimento d’avanguardia che affronti la ricostituzione del Partito Comunista come requisito per trasformare la resistenza in guerra popolare. Qui l’unica utopia (e reazionaria) è quella di pensare che la liberazione palestinese può risolversi assieme alla borghesia araba e islamica e senza il concorso delle masse schiacciate dal sionismo dentro le frontiere dello Stato d’Israele: persino dentro il costretto contesto della libertà nazionale è una temerità prescindere dell’internazionalismo. C’è qualche altra classe, partito o frazione capace di realizzare quella trasformazione rivoluzionaria in modo pratico, diretto e immediato? Faccia un passo avanti. Nel frattempo, e contro l’immensa ondata di nazionalismo e revisionismo, i comunisti rivoluzionari continueremo a innalzare con tutte le nostre forze la voce dell’internazionalismo proletario.

Comitato per la Ricostituzione

25 novembre 2023